Due donne...

 

 

 

Casella di testo: Benazir Bhutto

 

Casella di testo: Malalai  Kakar

 

...un unico destino!                                              


 

La condizione della donna in Afghanistan

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La situazione delle donne afghane continua ad essere terribile in un Paese impoverito economicamente, profondamente infestato dalla corruzione, dove l’indipendenza e l’autodeterminazione delle donne sembrano essere sempre più una chimera e dove il movimento talebano trova sempre nuova linfa vitale.

Volti sofferenti e sguardi di paura sono quelli della schiavitù in cui sono ridotte, poco più che bambine, le donne afgane vendute dai loro padri a mariti troppo vecchi, troppo violenti. I volti sfigurati, gli arti bruciati, lo smarrimento nei racconti di quando hanno deciso un gesto estremo o ancora di quando qualcuno lo ha deciso per loro.

Bruciate vive dalle fiamme o dagli acidi dopo un matrimonio forzato in un Paese che non le tutela e che garantisce agli uomini il pieno potere sulle loro vite e su quelle dei loro figli. I matrimoni forzati sono la normalità in Afghanistan e la violenza sulle donne è non solo tollerata ma anche favorita dalle leggi dello Stato. Quando una donna si sposa e si trasferisce nella casa del marito è reclusa, non può uscire per andare a fare la spesa, non incontra altre donne, e spesso non sa neppure dov’è la sua famiglia. La situazione di totale sottomissione la rende fragile e impaurita. In Afghanistan un uomo può divorziare e togliere i figli alla propria moglie senza che lei neppure lo sappia e che le sia mai comunicato.

La situazione dei diritti umani in Afghanistan è gravissima come rivelano anche nuovi dati sul traffico dei bambini.

Per questo è necessario non far cadere nel vuoto la morte di Malalai Kakar e Benazir Bhutto.

 


MALALAI KAKAR : IL CORAGGIO ELIMINATO

 

Malalai era un simbolo ed una promessa. Al fianco delle organizzazioni per i diritti umani si batteva per cambiare le cose, per dimostrare che è possibile seguire anche per le donne afghane la strada della democrazia e della libertà.

La lotta della Kakar non si compiva, inoltre, nella relativamente aperta Kabul: definita da Masuda Sultan, responsabile della lotta sostenuta dal WAW (Donne per le Donne Afghane) contro la barbarie e la violenza tribale, «Una dinamo!», Malalai lottava nell'Afghanistan profondo di Kandahar contro talebani e codici morali maschilisti, carichi di violenza mortifera. La sua stessa tranquilla energia, la sua presenza era una sfida per questi barbari vili: una donna in divisa, forte, indomita, libera. Da tempo nel mirino dei talebani, che ne hanno rivendicato l’assassinio, era scampata più volte ai tentativi di assassinio.

Malalai era diventata la poliziotta più famosa del Paese dopo aver ucciso tre killer durante un precedente attentato. Quarant’anni e sei figli, Malalai aveva i gradi di capitano e dirigeva il Dipartimento Reati contro le donne della polizia di Kandahar, la grande città del sud del Paese ritenuta la roccaforte dei talebani.

Figlia e sorella di un poliziotto, impegnata in polizia dalla fine degli anni Ottanta, era fuggita dall'Afghanistan con l'arrivo al potere dei talebani, per poi riprendere l'incarico alla caduta del loro regime a fine 2001. Con numerosi articoli aveva attirato l'attenzione della stampa afgana e internazionale, ed era molto rispettata a Kandahar, soprattutto per il suo coraggio.

Certamente Malalai Kakar sapeva di correre ogni giorno un rischio altissimo. Di più, da poliziotta, difensore dei diritti delle donne, e nemica del burqa, aveva anche avuto l’ardire di uccidere tre talebani che avevano cercato di farla fuori. Questo non significa che ogni mattina, alzandosi per andare a fare il suo lavoro, scortata magari dal padre o dal fratello che facevano il suo stesso mestiere a Kandahar, dove i talebani sono ancora padroni, non pensasse: «Questo è l’ultimo giorno che ci riesco, questo è l’ultimo giorno che saluto i miei sei figli».

Malalai aveva quarant’anni. Togliersi il burqa era stata la sfida imperdonabile.

Malalai durante un’intervista racconta la sua storia: «Mio padre insegna all’accademia di polizia. Mi sono arruolata nelle forze di polizia perché mio padre mi ha trasmesso l’amore per il suo lavoro. Io mi sento coraggiosa, onesta e forte e, al lavoro, mi sento come un uomo».

Malalai racconta dei molti messaggi con minacce di morte che ogni mattina strappa dalla porta di casa prima che i figli possano vederle, del suo lavoro in polizia e dei molti episodi di quotidiana sopravvivenza e sopraffazione in un mondo così difficile come è l’Afganistan di oggi.

Inoltre si sofferma sulla necessità della presenza femminile in polizia e in tutti i servizi pubblici, per permettere alle donne, cui è vietato interagire con uomini estranei, di ricevere assistenza da dottori, assistenti sociali, avvocati, ecc. Il bisogno di tali figure femminili è particolarmente sentito in un Paese in cui il tasso di assassinii domestici e violenza contro le donne è altissimo, in cui il 60% delle ragazze è costretto a sposarsi all’età di sedici anni, e in cui non sono poche le donne che, in segno di protesta, si uccidono dandosi fuoco. Non sono neanche poche le donne che formano reti di auto tra loro o che trovano il coraggio di denunciare le sopraffazioni subite. E per trovare questo coraggio è spesso determinante la presenza di un’altra donna che bussi alla loro porta.

«Le cose che faccio io gli uomini non le farebbero mai» diceva Malalai alla giornalista di Marieclaire. «Mi ricordo di quel caso in cui continuavo a bussare alla porta ma i bambini non mi volevano aprire. Coperta dal mio burqa dissi loro che ero una zia, e così mi aprirono». Quando entrò nella casa trovò una donna e suo figlio incatenati piedi e mani, sopravvissuti per dieci mesi a solo pane e acqua. Si trattava di una vedova risposata con il cognato, il quale, dopo averne abusato, l’aveva ripudiata e lasciata in queste condizioni.

«I talebani possono minacciarmi» diceva ancora Malalai Kakar, «ma le donne e i bambini mi amano, perché sanno che ho salvato, e posso continuare a salvare, molte di loro». E aggiunge: «Sono una donna forte e voglio servire il mio Paese. Grazie a Dio, non sono in preda alla paura. Certo, sto attenta ma non vivo nella paura».

Forse non era vero, forse avvertiva il soffio del pericolo ogni volta che usciva di casa e varcava la porta del suo ufficio, ma sapeva che le donne, quelle che nel suo Paese sono ancora obbligate a vivere chiuse in casa, dove l'ultima parola spetta alle armi e ai capi tribù, dove è uso risarcire i torti fra maschi vendendo le proprie figlie-bambine in cambio, e quando osino parlare per strada con un uomo sono fermate e costrette a fare test circa la loro verginità, la consideravano un simbolo ed una promessa.

Domenica 28 settembre 2008 a Kandahar è stata assassinata. E certo di donne morte, in quel giorno, non ci sarà stata solo lei sulla faccia del nostro pianeta, ma, per noi, è d’obbligo pensarla e riflettere, perché quando una donna muore, anzi viene uccisa, per difendere noi e i nostri diritti, ovunque questo accada, non possiamo passarlo sotto silenzio. Perché nessuna persona, uomo o donna, sacrifica volentieri la propria vita, neppure credendo in una causa e anche se lo mette nel conto delle possibilità. E’ successo in molte circostanze storiche, ma oggi pensiamo di vivere in un mondo civile e di diritto. Invece, ancora in troppi Paesi non è così.

I talebani l'avevano minacciata più volte. La rivendicazione dell'omicidio non si è fatta attendere: «Kakar era uno dei nostri bersagli e siamo riusciti a eliminarla», hanno dichiarato con una telefonata all'agenzia di stampa France Presse.

Raccontare la vita di questa donna coraggiosa  sembrerebbe un elogio di circostanza. Tuttavia quello che ci preme sottolineare è la solitudine in cui questa donna è stata lasciata dalle istituzioni non solo locali, ma internazionali, che per troppo, ormai usato, vetero-buonismo, fanno finta di non vedere, di non capire e giustificano atti ed azioni in nome di cultura, tradizione, religione che altro non sono che violazioni dei diritti fondamentali della persona.

Malalai Kakar non è, non può essere più considerato solo un nome di donna; troppo forte è il nome di un sacrificio così grande per dimenticarlo. La sua morte va ad aggiungersi al lungo elenco di poliziotti afghani che continuano a pagare un pesante tributo alla violenza che insanguina il Paese.

Ecco perché è necessario denunciare questo ripugnante omicidio di questa donna che lavorava, oltre che nell’interesse delle donne afghane, anche per una crescita democratica del suo Paese diventando un esempio da non dimenticare anche nel resto del mondo; e gridare forte tutta la nostra rabbia e il nostro dolore, rompere il muro della solitudine e chiedere all’ONU che le violenza inaudita perpetrata da anni nei confronti del genere femminile venga riconosciuta formalmente come crimine contro l’umanità.

Le Parlamentari del PdL, le organizzazioni civili si stanno attivando perché il Parlamento italiano riconosca il sacrificio di Malalai e le conferisca una medaglia che le donne italiane deputate a rappresentarci consegneranno alla famiglia.

Si avvierà inoltre una raccolta di firme per una petizione al Governo afghano affinché si impegni formalmente nella tutela dei diritti delle donne e vari un massiccio programma di scolarizzazione ed inserimento nel mondo del lavoro.

Dove le donne hanno istruzione, cure mediche e diritti individuali, dove hanno potere sociale, politico ed economico, dove esse possono scegliere cosa indossare, chi sposare, come vivere, là esiste un potente elettorato laico per l’affermazione della democrazia e dei diritti umani.

Quale madre educata, impegnata nella vita pubblica, vorrebbe che sua figlia fosse una macchina per fare bambini, analfabeta, confinata tra le quattro mura della casa del marito, senza nessuno con cui parlare tranne le sue altre mogli?

Ora più che mai la Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (RAWA), che si oppone sia ai talebani sia all’Alleanza del Nord, in quanto violenti, senza legge, misogini e antidemocratici, merita attenzione e sostegno. Le donne della RAWA sono un ben diverso modello di eroismo rispetto ad un signore della guerra con un kalashnikov. In Afghanistan esse rischiano la loro vita mandando avanti scuole segrete per ragazze, fornendo aiuto medico, documentando e filmando le atrocità dei talebani.

Il futuro delle donne afgane è ovviamente legato all’evoluzione dello Stato. Solo un governo che sia capace di coagulare intorno a sé un largo consenso su un progetto incentrato sullo sviluppo sociale e i diritti umani potrà indebolire la natura patriarcale della società.

Affinché avvenga, occorre formare giudici e procuratori, ma anche riformare il diritto vigente. Le leggi afghane non sono, infatti, in linea con gli obblighi internazionali che il Paese sarebbe tenuto ad osservare secondo il suo testo costituzionale: per fare solo alcuni esempi, il codice penale del 1976 stabilisce che la violenza domestica, i matrimoni forzati e lo scambio di donne per risolvere dispute locali non costituiscono reato; prevede punizioni severe per qualsiasi forma di relazione sessuale fuori dal matrimonio, con l’effetto di scoraggiare le denunce di stupro, mentre le sanzioni penali per i delitti d’onore sono estremamente lievi. La legge sul matrimonio del 1971 non riconosce uguali diritti ai coniugi in relazione allo scioglimento del matrimonio, alla proprietà, alla custodia dei figli e al consenso al matrimonio.

Da più parti si è espressa la speranza che le candidate neoelette sappiano fare blocco unico e promuovere l’emendamento di queste leggi. Ma la composizione del Parlamento e della Magistratura inducono ad un certo pessimismo. La Costituzione garantisce, è vero, il rispetto delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, ma non specifica come possano essere decisi eventuali conflitti normativi tra queste convenzioni e il diritto islamico, lasciando così ampio spazio discrezionale ai giudici. Ed è poco probabile che il governo centrale rischi la propria legittimità sulla questione femminile, che più volte nella storia del Paese ha costituito la scintilla e il pretesto della rivolta sotto la guida del settore religioso.

Concludendo ci auguriamo tutti che presto in Afghanistan gli aquiloni tornino a volare, ma soprattutto che le donne possano camminare a testa alta nel nome dell’autodeterminazione e della libertà, ma questo potrà accadere solo se noi donne libere troveremo la forza di lottare insieme e non lasciarle sole: sole si muore, insieme possiamo e dobbiamo vincere!



 

UNA DONNA, UN PAESE, IL SOGNO DEL RISCATTO

 

27 dicembre 2007: un kamikaze, al termine di un comizio a Rawalpidi, uccide l’ex premier pakistana Benazir Bhutto, una donna coraggiosa che si era battuta e continuava a battersi per il futuro del proprio Paese. Il suo omicidio mirava a distruggere la persona, una delle più brillanti donne del mondo islamico, e la sua causa, la democrazia, la prosperità e il progresso del Pakistan. Con la sua morte muore anche la speranza di un cambio politico ed economico del Paese.

Benazir era consapevole che la sua vita era in pericolo. Rientrando in Pakistan il 18 ottobre 2007 i terroristi, appartenenti alle forze fondamentaliste e islamiche conservatrici, l’avevano accolta con un attentato, il più grave della storia del Paese, che provocò la morte di 139 persone e il ferimento di oltre 400 militanti del Partito popolare pakistano riunito per accoglierla.

Ma lei non si è lasciata intimidire ed è rimasta nel Paese, anzi ha affermato: «Non dobbiamo lasciare che i terroristi uccidano con le loro bombe il sogno di un Pakistan democratico. Essi possono uccidere le persone, ma non le loro idee che sopravvivranno al terrore».

Nata nel 1953, Benazir Bhutto era la figlia maggiore dell’ex primo ministro Zulfikar Ali Bhutto. Grazie al padre, Benazir poté affermarsi liberamente e senza pregiudizi, nonostante la condizione femminile musulmana. Compì gli studi in patria e li completò all’estero, prima all’università statunitense di Harvard ed in seguito a Oxford, dove studiò politica, filosofia ed economia.

Tornata in Pakistan, divenne assistente del padre nel suo lavoro, finché Ali Bhutto venne deposto e condannato a morte dal generale Zia Ul-Haq, il dittatore che lo sostituì al potere. Benazir Bhutto venne relegata agli arresti domiciliari, ma in seguito riuscì ad ottenere il permesso di tornare nel Regno Unito e divenne leader in esilio del Partito Popolare Pakistano. La sua influenza sulla vita politica pakistana restò tuttavia limitata fino alla morte di Zia Ul-Haq (17 agosto 1988).

Ritornata in patria, riprese in mano il partito del padre e si presentò alle elezioni. Così nel 1988 le prime elezioni libere dopo oltre un decennio di dittatura videro trionfare il PPP: a soli trentanove anni la  Bhutto venne nominata capo di un governo di coalizione, diventando la persona più giovane, ma anche la prima donna a ricoprire questo incarico in un Paese musulmano.

Nel 1990 dovette abbandonare l’incarico dopo essere stata accusata, ma mai processata, per presunta corruzione e il PPP perse le elezioni tenutesi nell’ottobre dello stesso anno. A succederle fu Nawaz Sharif, colui che sarebbe stato il suo principale rivale nelle elezioni del 2008.

Nel 1993 la Bhutto venne rieletta, ma allontanata tre anni dopo per scandali legati alla corruzione, accuse false e infamanti, come lei stessa le definì, che colpirono anche il marito Asif Ali Zardari e determinarono il golpe del generale Pervez Musharaf.

Bhutto si autoesiliò trascorrendo otto anni tra Dubai e Londra, fino al suo ritorno in patria il 18 ottobre 2007, grazie alla mediazione del governo americano, per prepararsi alle elezioni nazionali, convinta che l’esilio dorato fosse la sua morte politica.

Il suo sogno di un prossimo riscatto per lei, per tutte le donne dell’Islam e per la sua patria è finito nel sangue, e un grande vuoto in quanti speravano nella sua capacità di mediare tra Islam e Occidente si è riaperto.

Chi sia stato l’assassino e a chi abbia giovato questa morte, ancora non è chiaro. Il colpevole più probabile è l’asse Al Quaeda/talebani, quell’invisibile nemico che, senza patria e confini, dal 2001 lancia sfide continue al mondo, semina terrore e morte e contro il quale si è impotenti e incapaci di difendersi.

 

È POSSIBILE IL RISCATTO?

 

La risposta non è semplice. Molte donne coraggiose da tempo si battono per il riscatto. I traguardi da raggiungere sono tanti, i tempi difficili, i muri da affrontare resistenti, ma non bisogna scoraggiarsi. Ecco i principali obiettivi da perseguire:

 

1)  Il diritto della donna a ricevere, allo stesso titolo dell’uomo, la stessa istruzione generale o professionale in tutte le scuole a ciò adibite.

2)  L’uguaglianza dei diritti dell’uomo e della donna nel matrimonio.

3)  L’ammissione senza riserve delle donne a tutti i pubblici impieghi, e a tutte le funzioni legislative.

4)  L’organizzazione, in tutte le città e i villaggi, di comitati per la protezione dei diritti della donna.

 

Quante le donne, che hanno dedicato la loro vita alla politica, hanno lasciato il loro nome alla storia pur sapendo già che si preparavano ad essere uccise, esiliate, messe a tacere, e soprattutto consapevoli di dover lottare non solo per la propria causa, ma contro una cultura maschilista che le emarginava, le isolava, che non dava loro la possibilità di cambiare le cose e la considerazione che esse meritavano?

Sono tante, forse troppe, le donne dotate di coraggio e tenacia che sono state allontanate dalla politica con la violenza, ma poche, rispetto alle reali possibilità, quelle che oggi, in tutto il mondo, sono uscite dall’ombra e hanno la volontà e la possibilità di farsi spazio, di impegnarsi in un settore, quello politico, dove non è facile combattere i pregiudizi legati alla figura femminile.

Per molte donne non è semplice sfuggire ad un destino già scritto dalla cultura, dalla religione, dalla tradizione, e vanno ammirate per il loro coraggio. È il caso di Benazir Bhutto che, nota in un Paese islamico, ha dovuto superare mille difficoltà. Infatti lei stessa raccontava di quando aveva dovuto cedere alle regole della sua religione e per rispetto della legge islamica fu costretta dalla madre ad indossare il burqa e solo grazie all’intervento del padre poté toglierlo; o del suo matrimonio combinato con Asef Ali Zardari, il ricco uomo d’affari scelto dalla madre secondo la consuetudine. Decisione, questa, a cui lei aveva acconsentito solo perché le permetteva di essere accettata e di poter lavorare per il suo Paese e per la sua gente.

Verrà mai superata la credenza, ancora ben radicata nei Paesi sottosviluppati ma altrettanto presente nell’Occidente, anche se ben mascherata, che la donna sia inferiore all’uomo?

Oggi, nel XXI secolo, si sente ancora parlare di «superiorità maschile»: sembra non siano bastati studi scientifici e dimostrazioni pratiche a rendere evidente che donne e uomini hanno pressoché le stesse caratteristiche e capacità, perché, nella realtà dei fatti, a fronte di questa sostanziale uguaglianza non sono garantite uguali possibilità.

È lo Stato che deve agire a favore della tutela della donna, per evitare la sua subordinazione all’uomo e garantire ad entrambi pari opportunità. L’istruzione è l’arma più efficace da utilizzare contro l’ignoranza, affinché le donne prendano coscienza della loro posizione e gli uomini rivalutino e valorizzano la sua figura.

Noi abbiamo parlato di Benazir Bhutto ma ci sono state tante e tante altre donne che sarebbero degne di essere inserite nei libri di storia, nella nostra stessa conoscenza, che purtroppo sono state discriminate durante la loro vita e che si spera siano presto conosciute.

 

IL PAKISTAN PIANGE BENAZIR BHUTTO E GUARDA ALLE ELEZIONI POLITICHE

 

Margherita Boniver, che negli anni del governo Berlusconi era Sottosegretario al Ministero degli Esteri, l'ha conosciuta e la racconta all'occidentale.

 

«Onorevole Margherita Boniver, come ricorda Benazir Bhutto?»

«Benazir Bhutto l’ho incontrata due volte, se non tre, a Islamabad in Pakistan, e durante le riunioni dell’Internazionale Socialista, verso la fine degli anni ’80. Era una donna affascinante, molto determinata, dall’eloquio efficace, dotata di un notevole carisma e, ovviamente, di una bellezza rimarchevole. Consapevole del ruolo di erede del padre - il Primo Ministro pakistano, Zulfikar Ali Bhutto, fatto giustiziare dal generale Zia nel ’79 - lei stessa portava avanti un programma di stampo democratico e laico.

Uno dei più grandi paradossi del Pakistan è proprio quello di essere allo stesso tempo una nazione sia laica che islamica. Infatti, se giriamo per le vie del Paese, notiamo che le donne indossano i loro costumi tradizionali, ma non portano il velo. Il Pakistan è uno Stato che rispettava alcune fra le principali tradizioni democratiche, come l’indipendenza della magistratura, la presenza di un parlamento o ancora università importanti e prestigiose. Garanzie che, però, sono andate deteriorandosi nel corso degli anni, soprattutto dopo l’arrivo al potere di Musharraf, artefice di una forte manipolazione della Costituzione, che ha favorito la presidenza militare e di recente l'imposizione dello stato di emergenza, l'intimidazione di molti giudici della corte suprema e l’arresto di diverse centinaia di attivisti dei diritti umani.

La Bhutto era tornata in Pakistan lo scorso ottobre, grazie ad un accordo imposto dagli Stati Uniti al Pakistan, dopo otto anni di esilio, e una volta toccato il suolo natio aveva dichiarato: «Sono tornata per sconfiggere il terrorismo che sta distruggendo il mio Paese e per far rispettare le istituzioni democratiche». Parole che, purtroppo, le sono state fatali».

 

«Qual è la Sua opinione sulla formazione e la carriera politica della Bhutto, una donna alla guida di un Paese musulmano?»

«Il fatto che una donna sia stata per ben due volte premier non deve stupire. Anche in altri paesi, come ad esempio le Filippine, le vedove o le figlie dei leader politici assassinati sono solite ereditare il ruolo del marito o del padre e portare avanti il proprio programma. La Bhutto era, fra l’altro, una donna molto colta e preparata, istruita nelle più prestigiose università statunitensi e britanniche, come è consuetudine per l’alta borghesia pakistana, che con la sua ricchezza conduce uno stile di vita assai raffinato e molto simile a quello occidentale. Una situazione ben diversa da quelle che sono le condizioni della maggior parte della popolazione pakistana, costretta a vivere nella miseria, aiutata solo negli ultimi anni da una crescita economica pari al 7%».

 

«Secondo Lei, quali saranno in Pakistan le conseguenze di questo attentato a livello sia politico che pratico?»

 

«È sicuramente molto difficile dirlo il giorno dopo. Credo che sarà necessario vedere cosa accadrà nei prossimi giorni. La situazione politica del Pakistan era piuttosto difficile, sin da prima dell’attentato. All’interno del Paese, vi sono, infatti, alcuni territori che solo nominalmente dipendono dal governo centrale, in quanto sono nelle mani di solide alleanze tribali. Sto parlando del Balukistan, del regno di Swat e del Waziristan, territori a ridosso dell’Afghanistan, i cui confini non sono ancora stati tracciati in modo definitivo. Non possiamo che augurarci che le elezioni politiche possano tenersi regolarmente l’8 gennaio, o comunque quanto prima. E il fatto che Musharraf non abbia ancora dichiarato lo stato di emergenza ci fa ben sperare. Certo, bisognerà vedere chi si presenterà come candidato del PPP, il Partito del Popolo Pakistano, e sarà importante considerare anche il comportamento dell’altro leader dell’opposizione, Nawaz Sharif, che mi è sembrato un po’ schizofrenico nelle ultime ore.

Il principale timore a seguito dell’assassinio della Bhutto riguarda non solo la possibilità della diffusione in Pakistan del caos più profondo, ma soprattutto il rischio che simili conseguenze si estendano e ricadano anche sui Paesi circostanti, l’Afghanistan primo fra tutti. E non è un caso che ieri si sia tenuto un colloquio fra il Presidente afghano Karzai e Musharraf, dove è stata espressa la necessità di collaborare».

 

«L’assassinio della Bhutto può essere considerato come una sconfitta della politica estera statunitense e più in generale di quella occidentale?»

«Credo proprio che non ci sia un “piano B”. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea avevano sia sostenuto la Bhutto, sia gli sforzi di Musharraf convincendolo anche a dimettersi dalla carica di capo dell’esercito. Lo scenario pakistano è certamente rimasto sconvolto da un evento che però, forse, non era troppo inatteso.

Noi sappiamo che la Bhutto aveva addosso un giubbotto antiproiettile, anche se poi è stata uccisa ugualmente. Il giorno del suo rientro in Pakistan, infatti, la Bhutto aveva rischiato di morire in un attentato che colpì le auto che la scortavano.

È necessario che la comunità internazionale ponga il Pakistan sotto osservazione, dispensando senza freni aiuti di intelligence e militari allo scopo di irrobustire la lotta agli estremisti e ai terroristi. È un compito che, però, non deve essere delegato solo alla politica estera statunitense. I Paesi dell’Unione Europea devono, infatti, adottare una strategia comune con gli Stati Uniti nei confronti del Pakistan, che per la sua posizione geopolitica risulta un partner essenziale per la lotta al terrorismo.

Circa tre anni fa si svolsero in Iraq con successo elezioni democratiche, ed è proprio per questo motivo che non si può negare lo svolgimento delle elezioni in Pakistan il prossimo 8 gennaio, in quanto evento politico fondamentale».

 

REAZIONI ALLA MORTE DI BENAZIR

 

«Abbiamo appena ricevuto questo rapporto estremamente importante da parte dei compagni pakistani. Spiega come l’assassino di Benazir Bhutto abbia avuto l’effetto di un catalizzatore che ha spinto le masse verso la strada della rivoluzione. La situazione sta cominciando ad assomigliare a quella della Russia zarista dopo la domenica di sangue del gennaio 1905. I marxisti pakistani di The struggle stanno giocando un ruolo guida nel movimento di massa, come dimostra chiaramente il rapporto. Attraverso la combinazione dell’idea della rivoluzione socialista con rivendicazioni di transizione democratiche stanno guadagnandosi l’ascolto delle masse e preparando il terreno per sviluppi rivoluzionari importanti in questo enorme Paese dell’Asia che conta 160 milioni di abitanti.

C’è stato uno sfogo incredibile di rabbia e di dolore quando è giunta la notizia dell’assassinio di Benazir Bhutto. I marxisti sono intervenuti in maniera massiccia in tutto il Paese nelle proteste ed in molte zone hanno guidato il movimento. Dove sono intervenuti l’ambiente iniziale di cordoglio si è tramutato in uno di estrema determinazione per farla finita  con il sistema feudal-capitalista marcio attraverso la rivoluzione socialista.

L’assassinio brutale di Benazir per mano dello Stato pakistano non è il primo atto di eliminazione deliberata di un dirigente di massa nel Paese. Il padre, Zulfiqar Ali Bhutto, è stato impiccato e due fratelli sono stati uccisi. Tuttavia la reazione gigantesca delle masse oppresse seguita a questo assassinio a sangue freddo non si era mai vista, di tali dimensioni, in questa parte del mondo».

 

«Per tutta quella gente oppressa dalla povertà Benazir impersonificava un sogno, il sogno di un futuro migliore e pieno di prosperità che li avrebbe liberati dalle loro vite miserabili. Quando gli apparati reazionari dello Stato hanno spazzato via quella che sembrava l’unica speranza, le masse sono scese in piazza in grande numero per dimostrare tutta la loro rabbia ed il loro risentimento nei confronti dello Stato. La maggior parte delle istituzioni sono state letteralmente ridotte in cenere in tutto il Paese e specialmente nel Sindh. Anche le banche, che sono un simbolo dello sfruttamento capitalista, sono state prese di mira dalla rabbia delle masse.

Durante i giorni del 28, 29 e 30 dicembre non c’era nessun governo del Paese. Tutti i funzionari dello Stato si nascondevano impauriti dalla furia delle masse e tutto il Paese era bloccato. In quei giorni l’attenzione era verso concentrata verso Naudero, il villaggio natale della famiglia Bhutto dove era stato portato il corpo di Benazir, il 28 dicembre. La direzione del PPP avrebbe tenuto la sua direzione nazionale proprio a Naudero il 30 dicembre».

 

«Karachi il giorno dell’attentato era un totale inferno. Le banche e gli edifici del governo sono stati messi a soqquadro mentre si è verificata qualche tensione su basi linguistiche fra le varie comunità, che però è stata risolta dagli attivisti del PPP che hanno isolato gli elementi più facinorosi chiedendo un’inchiesta libera e giusta sull’assassinio della Bhutto.

Il compagno Riaz Lund, un operaio delle acciaierie ed un marxista, che è candidato nella circoscrizione Na-257, ha organizzato diverse riunioni di commemorazione insieme al Presidente provinciale del PPP Raja Razaaq, Rafiq Baloch ed altri dirigenti del partito a Karachi.

I volantini sono stati distribuiti in tutte le case della circoscrizione elettorale che ha 385mila aventi diritto al voto. I volantini sono stati diffusi anche in tutte le riunioni commemorative tenutesi in altre parti della città».

 

POESIA A BENAZIR BHUTTO

 

Addio Amica, Sorella,
speranza del divenire!
Hanno cancellato, insieme al tuo viso,
il sorriso, il coraggio, la determinazione
e insieme la ragione
per poter vivere, amare e sperare
in un Paese lontano, da ricostruire.
La malvagità è tornata,
l’apocalisse, la bestia irata
che tutto distrugge per sete di potere.
Noi siamo antiche e la nostra memoria
ci dice che nella storia
le donne sacrificate, annullate, schiacciate
sono tante.
Le guerre combattute in prima persona,
condottiere, eroi femminili,
abbiamo sempre dovuto soccombere
ai prepotenti maschili,
che fanno un solo boccone
di democrazia, generosità
e dell’amore per la propria gente.
A loro non importa niente
della sofferenza umana,
credono di essere eterni
e di potersi portare il potere,
il denaro nella tomba.
Madri, Fate, Sorelle
di umana memoria,
di noi parla la storia.
Che sia umile o importante,
prima uccidono, poi ci fanno sante.
Su noi si basa la sopravvivenza,
la cura di tutti,
anche durante la guerra.
Difendiamo la nostra ed altrui terra
in molte maniere, silenti eroine,
sincere e con molto coraggio.
Il cuore stretto, le lacrime sul viso,
dobbiamo lasciarti andare,
anima grande, per il tuo ultimo viaggio.
Ancora un abbraccio, cara,
dal mondo femminile,
dalle donne antiche,
custodi di memoria,
di tutte le donne
uccise dalla storia.

 

Alice Milan, Elena Rubinato, Vania Vettorello,

Chiara Vicentini & Nicole Zanellato